Eclettico, virtuoso e camaleontico, cantore della moderna napoletanità e giullare della tradizione popolare che rivisita da anni con estro e spirito innovativo, narratore di storie antiche e di favole immortali: questo è Peppe Barra. Attore, musicista, cantante, cabarettista è, senza alcun dubbio, il più interessante artista contemporaneo che Napoli ha regalato alla scena internazionale negli ultimi venti anni.
Peppe Barra nasce a Roma nel 1944; è figlio di Giulio Barra, fantasista e valente artista del Varietà, e dell’indimenticabile Concetta, cantante ufficiale del mondo etnico campano, non può non essere affascinato dal mondo del teatro fin da piccolo. L’innato istinto, la mimica, la bellissima voce e la magnetica presenza scenica contribuiscono, nel corso degli anni, a trasformarlo in un cantante attore di grande spessore capace di dialogare con il pubblico e di legare con un filo sempre più sottile il copione all’improvvisazione ed alla carica di ironia tipicamente partenopea.
Inizia con zia Liù, maestra di recitazione, prima come allievo, poi, come insegnante, ma le prime esperienze importanti avvengono con il Teatro Sperimentale di Gennaro Vitello. Sin dagli esordi, nei suoi spettacoli teatrali, predilige la musica ed il canto, due componenti importantissime che lo conducono all’incontro con Roberto De Simone. La frequentazione del maestro De Simone stimolerà in maniera significativa non solo l’evoluzione artistica del Barra attore, ma anche e soprattutto l’inizio della sua attività di autore e studioso della tradizione popolare campana.
Nella seconda metà degli anni Settanta Peppe Barra è stato uno dei protagonisti indiscussi della Gatta Cenerentola, l’opera teatrale di Roberto De Simone, rappresentata con successo in tutto il mondo.
Il legame con la cultura e la tradizione napoletana è fondamentale per un artista che, attento alle sfumature e con energia istintiva e travolgente, fa convivere nei suoi spettacoli suoni e parole in una forma di inseguimento e fusione, ricercando Napoli, raccogliendola nei suoni della sua memoria orale, che egli non intende perdere, nei mercati, nei vicoli, lungo le brezze dei suoi porti, dove si mescolano suoni e ritmi. La forza della parola, gli accenti sospesi del suo dialetto diventano, attraverso i suoi vividi resoconti, la viva e palpitante materia con cui riporta alla superficie le emozioni della sua terra.
Peppe Barra, artista colto e raffinato, è considerato uno dei protagonisti più eclettici della scena napoletana e personaggio di rilievo della cultura del Novecento, protagonista del recupero della tradizione popolare musicale e teatrale, la cui forza dirompente è trasformata dall’artista in una commistione di sogni, desideri, passioni e suggestioni attraverso l’intensità e l’ironia che la napoletanità esprime nei suoi testi e nelle sue riscritture: molte delle quali occorre che siano pubblicate per non disperdere questo immenso patrimonio.
Da perfetto comico dell’arte egli è sempre attento a contaminare i generi in quello che è un repertorio costituito da testi classici, canzoni e tammurriate, favole tratte dal Basile e filastrocche popolari, liriche teatrali e poesie, barcarole procidane e storie di viandanti e di re. Un aspetto importante di un’espressione così raffinata deve essere ricercato nell’infanzia, nelle favole che egli ascoltava dalla madre Concetta, seduta con lui intorno al braciere nelle sere d’inverno. La forza dirompente di una tradizione che è trasformata dall’artista in una forma originale attraverso un linguaggio musicale, rituale e poetico.
Dopo aver registrato per la RAI venti tra le più belle favole tratte da Lu Cunto de li Cunti, ovvero Il Pentamerone di Giambattista Basile, Barra riscrive e trasforma l’opera di Basile nello spettacolo intitolato Lengua Serpentina in cui il linguaggio fiabesco si combina con la gestualità dell’artista e si fonde con gli arrangiamenti di Savio Riccardi e le musiche del violinista-compositore Lino Cannavacciuolo, suo assiduo collaboratore nella ricerca sempre più innovativa di nuovi linguaggi. Per questo spettacolo, al Festival delle Cinque Terre di Riomaggiore (Edizione 2000), Barra riceve, nella serata dedicata al Teatro e al Cinema, il “Premio Dioniso”. Anche in Lengua Serpentina Peppe Barra sa rendere protagonista la forza della parola, gli accenti sospesi del suo dialetto, rafforzando il significato dei testi tanto che l’amore, la vita e la morte sono raccontati con ironia e sarcasmo che si trasformano in tragedia. Nei labirinti della tradizione campana, che si snodano nelle sue creazioni, musica, canto e parole si fondono in un unico testo. I materiali riaffiorati, grazie alla lunga attività di ricercatore di Peppe Barra, si uniscono in un lavoro di revisione e riscrittura di un’opera composta alla fine del Seicento da Andrea Perrucci: La cantata dei pastori. Barra esalta l’opera popolare a carattere sacro dai risvolti comici e trasforma lo scrivano Razzullo, perennemente afflitto dalla fame e incapace di svolgere un lavoro stabile, in una figura imprevedibile che irrompe nella storia di Maria e Giuseppe, impegnati in un avventuroso viaggio per Betlemme. Nella Canzone di Razzullo l’autore recupera tutta l’ironia e l’amarezza che sa esprimere la migliore canzone napoletana. I simboli rituali e magici del presepe napoletano, gli scherzi e i tormenti, i divertenti scontri e le atmosfere sospese esplodono in un linguaggio popolaresco e comunicativo, che grazie a Barra, aggiunge un nuovo tassello alla memoria del teatro popolare.
Purtroppo la composizione e l’interpretazione di un lavoro così intenso e ricco di tradizione ci è pervenuto solo oralmente e questo aspetto costituisce una minaccia per la perdita di un’opera di notevole interesse.
Barra sa essere portavoce di un linguaggio universale, attraverso la sua rivisitazione i pezzi classici acquistano una nuova espressione, diventano una rilettura e una riscrittura inedita e sorprendente. Anche nella musica evadere tra i generi, le etnie e le sonorità è per Peppe Barra un modo naturale di incontrarsi e confrontarsi al di là di ogni diversità. Nel 1993 il grande Fabrizio De André chiede a Barra l’adattamento e l’interpretazione in napoletano del suo brano Bocca di rosa, inciso e interpretato dal vivo con estrema emozione nell’album Cani Randagi. In seguito, commentando la rilettura di quel pezzo, lo stesso De André conferma le doti di finissimo autore e comunicatore di un artista capace di “drammatizzare e trasformare in una specie di sceneggiatura moderna” una delle canzoni più belle della musica italiana. Anche qui contaminando passato e futuro e fondendo musica rock, musica barocca e tammurriate, in un affascinante viaggio musicale senza confini, Barra cerca sempre di valorizzare e salvare la nostra tradizione popolare.
Nell’universo di Peppe Barra il concetto stesso di canzone viene volutamente annullato, lacerato, messo a nudo per tirar fuori l’essenza di un soffio, di un lamento o di un gemito come di una gioia o di un amore. Strofe e ritornello diventano quindi vane stanze, cui è necessario far saltare le pareti per essere intercomunicanti. Egli è capace di far parlare le lingue del Mediterraneo che si confondono in un intreccio commovente e intenso in Guerra, un disco registrato dal vivo, in cui l’autore riflette sulla continua battaglia che ognuno di noi combatte quotidianamente per la sopravvivenza, ma soprattutto sulla disputa con i nostri labirinti interni, alla ricerca di un difficile equilibrio. Egli traduce in napoletano uno dei capolavori dei fratelli Mancuso: Se dimane je muresse, e dilata i tempi e l’interpretazione di Barcarola e di Don Raffaè, che rimane la canzone più feroce mai scritta sulla camorra, omaggio al poeta Fabrizio De André. Il tutto rigorosamente in dialetto, una lingua che diventa mezzo di comunicazione insostituibile.
Ma è in Suonno che Peppe Barra raccoglie in un unico affresco suoni, umori e ritmi del Mediterraneo, con grande naturalezza. Evocando l’infanzia trascorsa in una casa a picco sul mare di Procida, costruisce i suoi testi nel mondo fiabesco della Napoli seicentesca, avvalendosi dell’ironia e della malizia per poi spaziare dal ricordo della madre Concetta (Barcarola) alle canzoni dei suoi cari amici (Profumi e balocchi o Pigliate ‘na pastiglia).
In Marea marè di cui è interprete, regista e coautore dei testi con Massimo Andrei, Barra compie un viaggio esplorativo in uno dei luoghi più stratificati di bellezze e di storie: il mare Mediterraneo. L’opera trae origine da un racconto di emigrazione (anche questo appreso dalla mamma Concetta): due donne negli anni Venti lasciano Napoli per raggiungere gli Stati Uniti. Un tema doloroso che gli consente di esprimere quella gioia e quell’ironia che da sempre appartiene al popolo napoletano. Più che il mare, il filo conduttore di questo testo è la marea, intesa come la capacità di contenere molteplici aspetti della cultura tradizionale. Nella stessa marea convivono la melodia napoletana, la chanson francese, il sirtaki, la tradizione andalusa e quella tzigana, ma anche la tammurriata. Ed è proprio a questa grande ed immaginaria marea mediterranea che si è ispirato, recuperando e reinventando in forma moderna l’antica favola chiamata cunto. Insieme a Massimo Andrei, evoca mondi possibili, in cui le lingue antiche e diverse si mescolano e convivono come tradizione propria.
Il tema dell’emigrazione, che nei primi decenni del Novecento interessò molte popolazioni europee, viene rappresentato attraverso l’angoscia dell’ignoto, cui si va incontro e la perdita della propria identità. Un’angoscia cui fanno da contraltare l’ironia e la gioia di vivere il proprio essere napoletano, nonostante le distanze e le differenze. Mediterraneo è una parola che evoca mille suggestioni, grembo della nostra storia e della nostra civiltà. È lo spazio degli storici, il mondo lirico dei poeti. Mareamarè è il canto, ma anche il racconto, di chi è esposto alle maree sollevate dall’incontro tra nuovi popoli ed antiche culture.
Il viaggio tra le culture mediterranee, la scoperta di una lingua e di una tradizione che si fa musica, parola, arte, è per Barra la strada privilegiata per riscoprire le radici più profonde del proprio essere e della propria terra. Il segreto è comunicare e grazie a lui la comunicazione diventa intelligenza, ricordi, confessioni di un interprete inconfondibile che percorre le linee più intricate e nascoste della tradizione partenopea troppo spesso trascurate e dimenticate.

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